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Mastro Titta
Vero nome Giambattista Bugatti, "er Boja de Roma", è stato il penultimo boia di Roma ed eseguì ben 516 "giustizie" in 68 anni di carriera, tra il 1796 e il 1864. La sua carriera di incaricato delle esecuzioni delle condanne a morte iniziò il 22 marzo 1796 e prestò servizio fino al 1864.
Le sue prestazioni sono tutte annotate in un elenco che arriva fino al 17 agosto 1864, quando venne sostituito da Vincenzo Balducci e Papa Pio IX gli concesse la pensione, con un vitalizio mensile di 30 scudi.
Nessun altro boia in nessun altro paese e tempo lo ha mai uguagliato. Si dice che amava passeggiare, alle prime luci dell'alba, intabarrato nel manto scarlatto da "lavoro" nei luoghi dove ha eseguito le sentenze, ossia ai Cerchi (davanti la chiesa di S. Maria in Cosmedin), al Popolo (Piazza del Popolo) e, soprattutto, al Ponte (piazza di ponte S. Angelo), dove è possibile vederlo davanti un'antica abitazione sita all'angolo tra Via Paola e Lungotevere degli Altoviti. Si dice anche che, a volte, offra una presa di tabacco a colui che incontra.
Sia la tabacchiera, come il manto sono entrambi conservati al Museo Criminologico di Via Giulia e che una presa di tabacco Mastro Titta la offriva ai condannati poco prima di essere giustiziati.(ROM)
« Er ricordo
Er giorno che impiccorno Gammardella
io m’ero propio allora accresimato.
Me pare mó, ch’er zàntolo a mmercato
me pagò un zartapicchio[8] e ’na sciammella.
Mi’ padre pijjò ppoi la carrettella,
ma pprima vorze gode[9] l’impiccato:
e mme tieneva in arto inarberato
discenno: «Va’ la forca cuant’è bbella!».
Tutt’a un tempo ar paziente Mastro Titta[10]
j’appoggiò un carcio in culo, e Ttata a mmene
un schiaffone a la guancia de mandritta.
«Pijja», me disse, «e aricordete bbene
che sta fine medema sce sta scritta
pe mmill’antri che ssò mmejjo de tene». »
(IT)
« Il ricordo
Il giorno che impiccarono il Camardella
io mi ero appena cresimato.
Mi sembra adesso, che il padrino al mercato
mi comprò un “saltapicchio” e una ciambella.
Mio padre prese poi la carozzella,
ma prima volle “godersi” l’impiccato:
e mi teneva in alto sollevato,
dicendo: «Guarda la forca quant’è bella!».
Tutt’a un tratto, al “paziente”, Mastro Titta
appioppò un calcio in culo, e il papà a me
uno schiaffone sulla guancia con la destra.
«Tieni!», mi disse, «e ricordati bene
che questa stessa fine sta già scritta
per mille altri che sono meglio di te». »
(Giuseppe Gioachino Belli, sonetto n. 68, Er ricordo, datato 29 settembre 1830)
Approfondimenti
Lettura: http://www.museocriminologico.it/documenti...tro%20Titta.pdf.